lunedì 26 maggio 2014

FAMIGLIA DI FATTO: SE UCCIDI IL CONVIVENTE, RISARCISCI "L'ALTRA METÀ" CHE SUBISCE LA PERDITA


La sentenza postata qualche giorno fa rappresenta un altro passo verso l’equiparazione, almeno per alcuni fondamentali aspetti, tra famiglia per così dire legittima, ovvero legata dal vincolo matrimoniale, e quella naturale. La decisione, infatti, conferma l’orientamento, ormai consolidato, dei giudici di riconoscere la convivenza quale realtà sociale caratterizzata da una coabitazione stabile tra due persone che si rispettino tra loro e a cui, dunque, è necessario ricondurre diritti e obblighi. Nel nostro Paese la regolamentazione di qualche aspetto, in assenza di una legislazione unitaria che disciplini la materia, è stata demandata talvolta a leggi speciali e altre volte agli stessi giudici i quali, nell’ambito dell’attività interpretativa delle norme esistenti, hanno esteso anche ai componenti della famiglia di fatto tutele analoghe a quelle previste, dall’ordinamento giuridico, per i coniugi. Su tale presupposto i magistrati della Suprema Corte hanno ribadito un principio già affermato in precedenza, pure con riguardo alle coppie omosessuali, sulla base del quale anche la perdita del compagno o della compagna, con cui si coabita stabilmente, avvenuta per un fatto illecito altrui, quale può essere quello di un soggetto che alla guida di un auto provochi un sinistro stradale o quello commesso da un sanitario nell’esercizio della professione medica o ancora quello posto in essere da un datore di lavoro che abbia omesso di dotare di misure antinfortunistiche il lavoratore, da diritto al risarcimento dei danni per lesione di diritti. Vediamo allora quali sono i diritti che vengono lesi da tali comportamenti e in che modo e misura essi danno luogo a danni risarcibili…


DI FATTO È UNA FAMIGLIA Si definisce “famiglia di fatto” la convivenza qualificata tra due persone che pur coabitando stabilmente sotto il medesimo tetto in una casa che prende il nome di “abitazione familiare”, nel rispetto di doveri molto simili a quelli che discendono dal matrimonio, ovvero sostenendosi moralmente ed economicamente, collaborando nell’interesse della famiglia e mantenendosi fedeli uno all’altra, scelgono, tuttavia, per le ragioni più diverse, di non unirsi in matrimonio. Anche in Italia, per effetto del mutamento dei costumi, si è dunque avvertita la necessità di accordare maggior rilievo giuridico, e quindi tutela, alle unioni di fatto, ovvero a quelle unioni che, connotate da stabilità (non quindi a quelle segrete o temporanee), vengono riconosciute nell’ambiente sociale in cui la coppia vive. Ciò significa che l’ordinamento italiano ha predisposto un embrionale sistema di tutele per tutte quelle coppie, eterosessuali ma anche omosessuali, riconosciute come tali nel contesto del vivere quotidiano quando è noto che tali soggetti coabitino ed abbiano costituito quella comunione di vita, materiale e spirituale, tipica delle persone unite in matrimonio. 

I GIUDICI LA TUTELANO In virtù dell’accettazione e del riconoscimento della coppia di fatto come realtà sociale, dunque, i giudici ammettono che anche la morte del convivente more uxorio avvenuta per un fatto illecito altrui, rappresenti lesione di una serie di diritti che provocano danni e che andranno conseguentemente risarciti. Già a partire dagli anni ’90 dello scorso secolo, la giurisprudenza peraltro ha ritenuto che il diritto al risarcimento da fatto illecito concretatosi in un evento mortale andasse riconosciuto anche al convivente more uxorio del defunto stesso, quando risultava concretamente dimostrata una relazione caratterizzata da tendenziale stabilità e da mutua assistenza morale e materiale (Cassazione civile, Sezione III, Sentenza del 28 marzo 1994, n. 2988). In particolare i giudici di legittimità hanno affermato che, sussistendo un rapporto diretto fra il danno e il fatto lesivo, tutti coloro che abbiano subito un danno, siano essi legati al soggetto leso da un rapporto di natura familiare o para-familiare, hanno diritto al risarcimento. Il principio è stato ribadito dalla giurisprudenza di legittimità in più occasioni e, in ultimo, nella decisione che ho ritenuto utile riportare in modo integrale nel precedente post la quale sottolinea che non ogni convivenza può ritenersi sufficiente a fondare un’azione di responsabilità ma solo quella che abbia avuto un carattere di stabilità tale da far ragionevolmente ritenere che, ove non fosse intervenuta l’altrui azione, la convivenza sarebbe continuata nel tempo (Cassazione Penale, Sezione IV, Sentenza del 12 maggio 2014, n. 19487; Cassazione civile, Sezione III, Sentenza del 21 marzo 2013, n. 7128; Cassazione civile, Sezione III, Sentenza del 7 giugno 2011, n. 12278; Cassazione penale, Sezione I, Sentenza del 18 febbraio 2010, n. 6587; Cassazione civile, Sezione III, Sentenza del 16 settembre 2008, n. 23725; Cassazione civile, Sezione III, Sentenza del 29 aprile 2005, n. 8976; Cassazione civile, Sezione III, Sentenza del 31 maggio 2003, n. 8828). 

VALE ANCHE PER UNA STABILE RELAZIONE OMOSESSUALE Una decisione del Tribunale meneghino ha riconosciuto, infatti, il risarcimento del danno da fatto illecito, concretatosi in un evento mortale, anche al convivente more uxorio di ugual sesso in virtù del fatto che l’interesse tutelato è proprio quello della privazione di una persona con cui si condivideva la vita e la comunanza di intenti e progetti in una stabile relazione sentimentale e di coabitazione che genera una situazione di sofferenza riconosciuta e tutelata a prescindere dal connotato etero oppure omosessuale (Tribunale di Milano, Sentenza del 12 settembre 2011, n. 9965).

DIRITTI LESI E RELATIVI DANNI In conseguenza della perdita del proprio compagno di vita per fatto illecito altrui vengono lesi diversi diritti aventi connotati sia patrimoniali sia non patrimoniali che possono essere identificati nel modo che segue:

- diritto alla intangibilità della famiglia: gli articoli 29 e 30 della Costituzione tutelano la famiglia, naturale o legittima, quale estrinsecazione dell’individuo che sceglie di realizzare se stesso e la propria vita all’interno di quel nucleo. È chiaro che la morte del congiunto interrompe la relazione parentale e altera profondamente l’assetto della scelta che l’individuo ha operato per se stesso privandolo di sentimenti e valori ritenuti essenziali. In sintesi l’interruzione di questa relazione, ovvero dell’affectio familiaris, incide sul diritto, proprio di ogni uomo, alla intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito del nucleo familiare nonché alla inviolabilità della libera e piena esplicazione della persona umana, e quindi su valori costituzionalmente protetti. Alla lesione del diritto consegue la privazione della relazione dalla cui intensità dipende, poi, l’entità del danno. Il danno che ne deriva, il c.d. danno parentale, diretto e ingiusto, è di natura non patrimoniale e come tutti i danni-conseguenza va allegato e provato. Andrà, dunque, provata innanzitutto l’esistenza della relazione affettiva attraverso la dimostrazione di una coabitazione stabile, di una frequentazione intensa e di un affetto profondo. Ciò significa che più era intenso il vincolo scaturente dalla convivenza more uxorio e maggiore sarà il danno e il pregiudizio subito dal superstite. Correlato alla lesione del diritto alla intangibilità della famiglia è pure il danno, questa volta di carattere patrimoniale, patito per l’improvvisa perdita dell’assistenza materiale. E’ chiaro che in tal caso occorrerà provare che il defunto provvedeva a contribuire economicamente in modo stabile al mantenimento del convivente more uxorio superstite

- diritto alla salute: anche questo è un diritto di rilevanza costituzionale (art. 32 della Costituzione), intangibile e inviolabile che laddove leso, cagiona un danno, il c.d. danno biologico, che l’ordinamento giuridico riconosce come risarcibile. Può accadere, infatti, che la privazione della persona che si era scelta quale compagno o compagna con cui condividere obiettivi e progetti o semplicemente la perdita dell’affetto che tale soggetto esprimeva, generi un vero e proprio danno alla salute del convivente superstite. Ciò accade quando quest’ultimo non è in grado di metabolizzare la sofferenza e il lutto e dunque, si trovi ad affrontare stati depressivi profondi che generano malattie psichiche e fisiche che minano, in modo spesso irrimediabile, la salute dello stesso. Anche questo danno rientra nella categoria dei danni non patrimoniali che andrà necessariamente comprovato e sarà risarcibile iure proprio, laddove venga adeguatamente dimostrato il nesso causale tra il fatto illecito e il danno subìto alla propria salute.

- diritto alla integrità morale: protetto dall’art. 2 della Costituzione e risarcibile come danno morale soggettivo. Ad esso fanno capo tutti i pregiudizi di tipo non patrimoniale costituiti dalla sofferenza soggettiva, la quale può anche essere duratura e non temporanea, che comprende non solo il dolore psichico ma anche qualunque pregiudizio derivante dal fatto illecito. Una volta accertata la lesione di tale diritto il convivente superstite dovrà, dunque, allegare e provare che ciò ha comportato un danno. Ciò significa che colui che assume di essere stato danneggiato dalla privazione del convivente dovrà provare la sussistenza di una serie di pregiudizi quali per esempio di aver profondamente sofferto per il trauma affettivo subito, per la mancanza di supporto morale e per l’alterazione della vita di relazione.

DIRITTI RICONOSCIUTI, DANNI RISARCITI In conclusione, e per sintetizzare, se è vero che nell’ipotesi di morte del convivente il superstite non possa vantare alcun diritto successorio per mancanza del vincolo coniugale, fatta eccezione per il caso di testamento e nei limiti del patrimonio di cui il deceduto poteva disporre, è altresì vero che la morte cagionata dal fatto illecito di un terzo comporta, in capo a costui, l’obbligo di risarcire il convivente superstite per la lesione dei diritti summenzionati che abbiano cagionato un danno.

Avvocato Patrizia Comite – Studi