giovedì 21 luglio 2016

CRITICA GIUDIZIARA: DIRITTO RICONOSCIUTO, MA OCCHIO AI LIMITI


Negli ultimi tempi, i magistrati e l’intero potere giudiziario sono stati spesso al centro di attacchi e critiche da parte non solo di comuni cittadini, ma anche di politici o, comunque, esponenti degli altri poteri dello Stato, che hanno rivolto all’indirizzo di sentenze e magistratura parole e commenti duri ed eccessivi, tali da mettere finanche in dubbio la stessa indipendenza, imparzialità e terzietà dei giudici. Tali critiche sono lecite o diffamatorie? Oltre a ledere potenzialmente la dignità personale e la professionalità degli stessi magistrati criticati, non potrebbe astrattamente incidere, influenzandole, sull’indipendenza e autonomia della magistratura? È importante capire con quali modalità e soprattutto i limiti che occorre tenere d’occhio per il corretto esercizio del diritto di critica…


LA VICENDA oggetto della sentenza in commento nasce da un procedimento penale nei confronti di un’insegnante, imputata di aver abusato dei mezzi di correzione nei confronti di un alunno, avendolo costretto a scrivere per cento volte sul quaderno “sono un deficiente”, per aver apostrofato come gay un suo compagno. L’insegnante era stata assolta e, nel conseguente appello, il magistrato, che aveva istruito il procedimento penale, aveva paragonato i metodi educativi dell’insegnante a quelli della rivoluzione culturale maoista del 1966, in quanto, affermava, è costume dei ragazzi apostrofarsi, reciprocamente e spesso per scherzo, con espressioni omofobiche. Abitudine, certo, non lodevole, ma largamente diffusa ed anche largamente tollerata dalla società. L’accostamento dei metodi educativi dell’insegnante a quelli della rivoluzione culturale cinese del 1966 e la giustificazione, quale fatto di costume, dell’uso, pur deplorevole, di espressioni omofobiche, non erano piaciute ad una associazione omosessuale, che, criticando sul proprio sito Internet il tenore dell’intero atto di appello del magistrato, gli aveva attribuito atteggiamenti di grettezza machista, omofobia e misoginia. Da qui, pertanto, la querela del magistrato per diffamazione.

LA CORTE DI CASSAZIONE chiamata ad intervenire sulla vicenda, ha affrontato la questione sia da un punto di vista generale (differenza tra diritto di critica e diritto di cronaca) sia da un punto di vista specifico (funzioni e limiti del diritto di critica giudiziaria). Sotto il primo profilo, infatti, i giudici di legittimità hanno ricordato che il diritto di critica si differenzia dal diritto di cronaca poiché non si concretizza nella narrazione di fatti (come fa appunto la cronaca), ma nell’espressione di un’opinione che, come tale, non può pretendersi rigorosamente obiettiva, dal momento che la critica, per sua natura, non può che essere fondata su un’interpretazione, necessariamente soggettiva, di fatti e comportamenti. Da ciò consegue che, in materia di diritto di critica, non si pone un problema di veridicità delle proposizioni assertive dell’articolista, in quanto il requisito della verità è limitato alla oggettiva esistenza del fatto assunto a base delle opinioni e delle valutazioni espresse. Nel caso di specie, rispondevano al vero sia il paragone con i metodi da rivoluzione culturale cinese sia l’asserita giustificabilità dell’uso di espressioni omofobiche, origine e causa della critica incriminata, nella quale peraltro non si riscontrava alcuna ostilità personale nei confronti del magistrato autore dell’atto di appello oggetto della critica.

SOTTO IL PROFILO DEL DIRITTO DI CRITICA GIUDIZIARIA poi, la Corte di Cassazione ha osservato che il diritto di critica dei provvedimenti giudiziari e dei comportamenti dei magistrati deve essere riconosciuto nel modo più ampio possibile, non solo perché la cronaca e la critica possono essere tanto più larghe e penetranti, quanto più alta è la posizione dell’homo publicus oggetto di censura e più incisivi sono i provvedimenti che esso può adottare, ma anche perché la critica è l’unico reale ed efficace strumento di controllo democratico dell’esercizio di una rilevante attività istituzionale che viene esercitata in nome del popolo italiano da persone che, a garanzia della fondamentale libertà della decisione, godono di ampia autonomia ed indipendenza (Cassazione penale, V Sezione, Sentenza del 27 giugno 2016, n. 26745; Cassazione penale, V Sezione, Sentenza n. 34432 del 2007; Cassazione penale, V Sezione, Sentenza del 6 luglio 2004, n. 29232).

LA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO chiamata negli anni e in diverse occasioni a decidere casi analoghi, è pervenuta a medesime conclusioni. Partendo, infatti, dall’art. 10 (“Libertà di espressione”) della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, i giudici europei hanno precisato che i limiti di critica ammissibili nei confronti dei magistrati nell’esercizio delle loro funzioni sono più ampi rispetto ai privati, sebbene in ogni caso i magistrati non possano essere equiparati ai politici per i quali la critica è ancora più ampia. Quindi, critica sì, ma entro alcuni limiti volti a tutelare il potere giudiziario da attacchi gratuiti e infondati che potrebbero essere motivati unicamente da una volontà o una strategia di portare il dibattito giudiziario su un piano strettamente mediatico o di entrare in polemica con i magistrati che si occupano del caso (ex multis, Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 30 giugno 2015, Ricorso n. 39294/09, Peruzzi c. Italia).

IN SINTESI è riconosciuto il diritto dei cittadini di criticare i magistrati, ma soltanto quale forma di bilanciamento rispetto alla loro indipendenza, autonomia e funzione pubblica e per questo, limitato dalla necessità di assicurare che non sia compromessa la fiducia che la collettività deve avere nell’amministrazione della giustizia.


Avvocato Gabriella Sparano – Redazione Giuridicamente parlando