mercoledì 28 settembre 2016

LAVORO: SE I PERMESSI PER LA CURA DEI DISABILI SONO USATI PER ALTRI SCOPI?


In queste ultime settimane, il tema della disabilità è stato spesso al centro della cronaca, che se ne è occupata sia in termini positivi, per raccontarci i successi dei nostri atleti alle Paralimpiadi, sia purtroppo in termini negativi, per raccontarci i tanti episodi di discriminazione ed emarginazione legati ad essa, tanto da indurre anche il Governo ad avviare in questi giorni una campagna di sensibilizzazione per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sul tema dei diritti delle persone con disabilità. Anche la Corte di Cassazione si è occupata dell’argomento, sebbene solo indirettamente, emettendo diverse sentenze nelle quali ha riconosciuto e ribadito la piena legittimità del licenziamento del lavoratore per aver abusato dei permessi retribuiti previsti dall’art. 33 della Legge n. 104/1992, quali misure a tutela dei disabili. Che si intende per abuso e quando si configura?
 
I PERMESSI RETRIBUITI oltre che al lavoratore dipendente disabile in situazione di gravità ed al lavoratore dipendente genitore, anche adottivo o affidatario, di figli disabili in situazione di gravità, sono riconosciuti, dal comma 3 dell’art. 33 della Legge 104, anche al lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste una persona con grave handicap. A quest’ultimo, infatti, è riconosciuto il diritto a fruire di tre giorni, anche continuativi, di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa, a condizione però che la persona assistita non sia ricoverata a tempo pieno e che il lavoratore che presta assistenza ne sia il coniuge, un parente o un affine entro il 2° grado, ovvero entro il 3° grado se i genitori o il coniuge della persona assistita abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure sono anche essi affetti da patologie invalidanti o sono deceduti o mancanti. È proprio a quest’ultima categoria di lavoratori che si riferiscono le recenti sentenze della Corte di Cassazione: lavoratori che, in evidente spregio delle finalità di tale agevolazione lavorativa, utilizzavano le ore di permesso non tanto o non solo per prestare assistenza ai propri cari disabili, quanto piuttosto per attendere ai propri affari, i più disparati.

LA RAGIONE DEL BENEFICIO infatti è l’assistenza alla persona disabile. L’attività di assistenza, quindi, deve essere prestata in coincidenza temporale con la fruizione dei permessi accordati dal datore di lavoro e per la loro intera durata. Su questo, secondo i giudici di legittimità, la norma parla chiaro e, in mancanza di specificazioni ulteriori da parte del legislatore, non ammette alcuna diversa interpretazione. L’assenza dal lavoro per la fruizione del permesso, infatti, deve porsi in relazione diretta con l’esigenza per il cui soddisfacimento il diritto stesso è riconosciuto, ossia l’assistenza al disabile (quindi, permesso = assistenza). La Corte di Cassazione, quindi, respinge nettamente le argomentazioni difensive dei lavoratori licenziati, per i quali la ratio della norma è da ravvisare in una funzione non direttamente strumentale, ma solo compensativa delle cure ed incombenze prestate in momenti temporali diversi dalla fruizione dei permessi. Infatti, nessun elemento testuale o logico consente di avallare una simile visione dell’istituto che, tantomeno, può essere utilizzato per esigenze diverse da quella dell’assistenza al disabile, in quanto il beneficio comporta un sacrificio organizzativo per il datore di lavoro, giustificabile solo in presenza di esigenze riconosciute dal legislatore (e dalla coscienza sociale) come meritevoli di superiore tutela. Laddove, pertanto, il nesso causale tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile manchi (del tutto o anche solo in parte), non può riconoscersi un uso del diritto coerente con la sua funzione e dunque si è in presenza di un uso improprio e, quindi, di un abuso del diritto, che ha assunto crescente rilievo anche nella giurisprudenza europea, riconosciuto all’art. 54 della Carta dei diritti dell’unione europea (Corte di Cassazione, sezione lavoro, sentenza del 13/09/2016, n. 17968).

UN ABUSO ANCOR PIÙ AGGRAVATO dalla conseguente indebita percezione dell’indennità e dallo sviamento dell’intervento assistenziale, che tale comportamento integra nei confronti dell’Ente di previdenza erogatore del trattamento economico. Ma, anche il rapporto con il datore di lavoro ne esce mortificato: utilizzato per finalità differenti, il permesso fruito determina una assenza ingiustificata dal lavoro, intaccando il vincolo fiduciario alla base del rapporto lavorativo e ledendo la buona fede del datore di lavoro, privato ingiustamente della prestazione lavorativa in violazione dell’affidamento riposto nel dipendente. In tal modo, il lavoratore compie una grave e palese violazione dei doveri di correttezza e diligenza, nonché dei primari ed elementari doveri imposti dalla convivenza sociale, venendo quindi legittimamente colpito con la sanzione del licenziamento. Non a caso, infatti, l’abuso dei permessi 104 e l’assenza ingiustificata dal lavoro che ne deriva sono oggi considerati indice di quella infedeltà lavorativa di cui, anche a seguito di eclatanti episodi assurti agli onori della cronaca, tanto si parla, inducendo a ritenere legittimo, quale strumento di contrasto, l’utilizzo di investigatori privati e di controlli a distanza sui lavoratori (Corte di Cassazione, sezione lavoro, sentenza del 12/05/2016, n. 9749;  Corte di Cassazione, sezione lavoro, sentenza del 06/05/2016, n. 9217).

IN CONCLUSIONE l’utilizzo di tali permessi per finalità (in tutto o in parte) diverse da quella propria attribuita dal legislatore, integra una condotta condannabile sotto diversi profili. Di ciò i giudici della Suprema Corte sono sempre più consapevoli e con le loro pronunce, tutte dello stesso tenore, hanno inteso stringere le maglie dell’istituto previsto dalla legge n. 104/1992.


Avvocato Gabriella Sparano – Redazione Giuridicamente Parlando